Francesco Piraino

Cini

Da "Venezia e l'Oriente" al "Centro Studi di Civiltà e Spiritualità Comparate"

In questo articolo descrivo brevemente la storia del Centro di Studi di Civiltà e Spiritualità Comparate (prima Venezia e L’Oriente) della Fondazione Giorgio Cini. Una versione completa di questo testo si può trovare in: Francesco Piraino, 2022, “Da ‘Venezia e l’Oriente’ al ‘Centro Studi di Civiltà e Spiritualità Comparate’ in Fondazione Giorgio Cini Settant’anni di Storia, a cura di Pasquale Gagliardi e Egidio Ivetic, Padova, Marsilio, pp. 145-157.

Introduzione

Descrivere la storia dell’Istituto “Venezia e L’Oriente” e la sua successiva trasformazione in “Centro Studi di Civiltà e Spiritualità Comparate” è un compito alquanto arduo. Infatti, questo Istituto/Centro ha cambiato più volte pelle, a partire dal nome, modificando i suoi interessi scientifici, gli approcci, i metodi e gli scopi. Tra i direttori di questo Istituto/Centro polimorfo vi sono stati esperti di sinologia, di bizantinologia, di slavistica, di storia delle religioni, fino alla recente svolta socio-antropologica. Nonostante questa instabilità e irrequietezza nelle forme, possiamo cogliere una forte continuità nei contenuti nel corso di più di sessant’anni di storia dell’Istituto/Centro, che concernono la spiritualità, l’incontro con le diversità religiose e culturali, la ricerca di un umanesimo, la porosità tra secolare e religioso e le cosiddette sfide del mondo contemporaneo.

Inoltre, possiamo cogliere queste tematiche, prima ancora della creazione dell’Istituto nel 1958, nella stessa missione della Fondazione Cini, descritta da Vittore Branca (1913-2004) come la promozione della “crescita sociale e spirituale dell’uomo, di qualunque uomo che Vittorio sentiva figlio e fratello”. Branca descrive una tensione verso la Verità, radicata sì nel cristianesimo, ma che tende verso l’alterità, alla ricerca di un umanesimo non di maniera, ma vivente, che sembra ricalcare quanto scritto da Eugenio Garin (spesso ospite a San Giorgio) riguardo l’umanesimo rinascimentale.

“Chi vada a fondo, e questi è il pio filosofo, coglie l’unico vero oltre gli infiniti aspetti, e in tutte le rivelazioni religiose, in tutti i canti dei poeti, in tutte le bellezze della natura, in tutte le armonie matematiche, afferra l’unica anima, quel Logos che parla anche in noi, e che, come platonicamente canterà con accenti esaltati il Lazzarelli, sentiamo nelle altre anime, nelle cose, nel tutto infinito, poiché tutto è rivelazione di Dio.”

L’interesse della Fondazione per l’Oriente e per il dialogo tra civiltà e spiritualità, si condensa nel 1958 nella creazione dell'”Istituto Venezia e l’Oriente”, quale sezione autonoma del “Centro di Cultura e Civiltà”. Questo avviene in linea con il programma dell’UNESCO “Oriente e Occidente”, dove Venezia è pensata come la storica cerniera tra Nord e Sud ed Est e Ovest. L’Istituto viene dotato di una biblioteca che oggi conta più di 40.000 volumi e che continua a crescere. Da sottolineare la preziosa acquisizione nel 1961 della raccolta in microfilm dei “Libri rari della Biblioteca di Pechino”, ordinati alla Library of Congress di Washington, la donazione da parte di Alain Daniélou dell’intera sua biblioteca nel 1971, le donazioni di Ezra Pound – Olga Rudge e Nino Rota alla fine degli anni Novanta. Inoltre, è da sottolineare la donazione del 2014 di Angela Staude della biblioteca e dell’archivio del giornalista Tiziano Terzani.

Il cambiamento

La rifondazione dell’Istituto, a partire dal suo nome, corrisponde alla necessità di una rifondazione che investe l’epistemologia, la metodologia, ma anche la politica e le estetiche. Infatti, il mondo degli anni Cinquanta, nel quale il nome “Venezia e L’Oriente” aveva un significato chiaro e condiviso, è radicalmente cambiato.

Innanzitutto, la contrapposizione geopolitica tra comunismo e mondo capitalista-liberale ha cessato di esistere, lasciando spazio ad un mondo multipolare estremamente dinamico. La Fondazione non ha più la necessità di offrirsi come porto franco per un dialogo tra Europa occidentale liberale ed Europa orientale comunista. Il cambiamento non è solo geopolitico, ma è più profondo, e va sotto il nome di quell’insieme complesso di fenomeni chiamato globalizzazione. Caratterizzato dalla produzione e circolazione di merci su scala globale, ma anche dalla diffusione in tutto il mondo di forme politiche e culturali nate nel cosiddetto Occidente. A tal proposito l’espressione “glocalizzazione” è forse più precisa, poiché descrive sia il fenomeno di influenza globale, sia il relativo adattamento e la resistenza locale.

Infine, è stata messa in discussione la grande narrativa di un processo di secolarizzazione implacabile, che avrebbe dovuto rendere obsolete le religioni. In realtà, più che di una scomparsa della religione si è trattato di una trasformazione, che ha messo in crisi alcune istituzioni religiose, ma non ha rimosso la necessità dell’essere umano di produrre significato religioso e di vivere l’esperienza del trascendente. Infatti, sono emerse nuove forme di spiritualità in Europa, Stati Uniti, ma anche nel cosiddetto Oriente, le quali sono tutt’altro che passeggere o insignificanti, ma al contrario hanno una grande rilevanza sociale e politica. Sono emerse anche nuove manifestazioni politiche della religione, si pensi alla crescita dell’Islamismo, ma anche al nazionalismo induista.

Questi cambiamenti epocali hanno intensificato l’interesse verso il presente, e spinto a rivalutare il passato, mettendo in discussione l’etnocentrismo dello sguardo. Inoltre, si è sentita la necessità di fornirsi di nuove epistemologie e metodologie, per affrontare una complessità sempre più evidente, che ha rivelato l’inconsistenza della dicotomia tra un “Occidente moderno” e un “Oriente tradizionale”.

Per sottolineare questo approccio globale, multipolare, interdisciplinare e comparato, dal nome del Centro viene tolto quindi il riferimento a Venezia, che rimane implicito; non più metro e misura ma punto di partenza, riferimento in un’intricata rete di avvenimenti storici, politici e culturali. Scompare anche il richiamo all’Oriente, in quanto termine che sottende l’idea di un Oriente monolitico e, come hanno dimostrato le ricerche di Edward Said, legato indissolubilmente all’essenzialismo eurocentrico, in particolar modo alla giustificazione morale e politica del colonialismo e quindi alla supposta missione civilizzatrice dell’Europa bianca sul resto del mondo. Gli intellettuali e politici europei hanno spesso proiettato sull’Oriente le proprie paure (la violenza dei barbari), i propri desideri (la sensualità sfrenata delle orientali) e le proprie aspirazioni (il mito del buon selvaggio in contrapposizione alla decadenza dell’uomo moderno).

La rinascita: per un non-manifesto della ricerca comparata

Lo studio comparato dei fenomeni culturali e religiosi, sviluppatosi a inizio Novecento e consolidatosi nel dopoguerra, ha subìto gli stessi stravolgimenti sociali, politici e scientifici che abbiamo discusso precedentemente. Il metodo comparativo è stato associato o addirittura identificato da alcuni con il paradigma essenzialista, evoluzionista e/o Orientalista.

Alcune di queste accuse erano ben fondate, infatti per molti decenni l’approccio comparativo è stato caratterizzato dall’idea che fosse necessario identificare degli archetipi universali, applicabili in diverse culture e contesti storici. Questo approccio si poneva a cavallo tra la ricerca mistica/esoterica e la ricerca scientifica e aveva un carattere “eroico”. Costitutiva una sorta di resistenza in opposizione ad una modernità meccanica, materialista e quantitativa. Inoltre, l’approccio comparativo è stato strumento del potere coloniale, utile a classificare e a dominare le popolazioni altre.

La ricerca di archetipi universali, che ancora oggi affascina molti intellettuali e potrebbe offrire delle prospettive interessanti dal punto di vista scientifico, comporta delle problematiche che devono essere prese in considerazione. Innanzitutto, il focus sull’universale è spesso accompagnato da un certo disinteresse per l’accuratezza filologica e storica, o in alcuni casi da una vera e propria avversione per la ricerca scientifica storiografica. A questo proposito si è parlato anche di “armchair anthropology”, che si potrebbe tradurre come “antropologia da salotto”, termine utilizzato per criticare quelle ricerche dove il pregiudizio iniziale determinava i risultati della ricerca stessa, e il contatto con i soggetti/testi studiati era ridotto all’osso. Il secondo aspetto problematico riguarda la possibilità di identificare nelle religioni e popolazioni un’essenza, un carattere peculiare immutabile in diversi contesti storici e culturali. Questa visione essenzialista non solo è stata messa in discussione dalle scienze sociali, ma è estremamente problematica, in quanto utilizzata per giustificare varie forme di suprematismo e nazionalismo.

Se queste critiche al comparativismo sono ben fondate e anzi salutari, vi sono altre critiche che considero problematiche e infondate. Mi riferisco all’idea che ogni forma di comparazione sia impossibile, a causa della specificità e peculiarità di ogni fenomeno religioso e culturale che dovrebbe essere studiato nella sua unicità. Secondo questa prospettiva “particolarista”, si dovrebbero creare tante antropologie quante sono le religioni, vi sarebbero quindi un’antropologia dell’Islam, dell’ebraismo, del taoismo e così via. Inoltre, questa prospettiva nasconde spesso una rivendicazione di superiorità sugli altri fenomeni: non si accetta di essere comparati, poiché non si ritiene gli “altri” degni di comparazione. Questa visione non prende in considerazione l’intersezionalità dell’essere umano, la continuità nelle sue differenze e l’influenza reciproca che le religioni e culture hanno prodotto. Infatti, lo studio di qualsiasi fenomeno religioso e culturale ha sempre una componente comparativa, implicita o esplicita che essa sia.

Un’altra critica spesso mossa da intellettuali cosiddetti postmoderni allo studio comparato delle religioni è l’impossibilità dell’universalismo, tematica fondamentale in questo campo: basti pensare alle narrative universaliste presenti nell’esoterismo europeo, nelle correnti mistiche, nel neoplatonismo e nei movimenti di spiritualità alternative contemporanei. La presunta impossibilità del pensiero universale si basa sulla diffidenza verso qualsiasi ideale umanista; infatti, secondo questi autori, l’umanesimo o l’universalismo non sono altro che forme utili a nascondere gli interessi soggettivi o tribali e le forme di potere. Seguendo questa prospettiva qualsiasi discorso universalista non è altro che “falsa coscienza”, una forma di imposizione del proprio pensiero sugli altri e di mistificazione dei rapporti di forza. L’esempio principe è la missione civilizzatrice coloniale, che dietro la narrativa dell’esportazione della civiltà nei paesi “barbari”, nasconde violenza e sfruttamento.

Questa visione postmodernista ha avuto il merito di mostrare le contraddizioni di alcuni discorsi universalisti, ma allo stesso tempo è portatrice di forti limiti analitici. In primo luogo, questo anti-umanesimo può comportare un ripiegamento soggettivo e individualista, in base al quale diventa impossibile pensare in maniera positiva e costruttiva la dimensione collettiva. Infatti, la società, la collettività, lo Stato diventano protagonisti solo in negativo, in quanto strutture che implementano un dominio biopolitico. Il rischio sotteso a questa interpretazione è di ridurre la “cura del sé” alla sfera della soggettività, ad una sorta di solipsismo.

Questo breve, e giocoforza riduttivo, excursus della storia del comparativismo è necessario per dare fondamento alla scelta di parlare di un “non-manifesto”. Infatti, a differenza di un manifesto che esponga in maniera coerente cosa significhi fare ricerca comparata, noi preferiamo mettere in risalto l’eterogeneità degli approcci utilizzati. In questo non-manifesto dello studio comparato, intendiamo sottolineare che la comparazione non corrisponde alla ricerca di una sintesi onnicomprensiva dei fenomeni studiati. Non si tratta di trovare un metalinguaggio capace di riassumere fenomeni diversi, ma piuttosto di trovare un infra-linguaggio capace di connettere diverse prospettive. Non proponiamo quindi una determinata metodologia, né dei termini di comparazione prestabiliti da applicare in maniera rigida. La comparazione non è giusta o sbagliata, ma può essere “utile o inutile” e mai conclusiva, come sostenuto da Segal.

Seguendo questa prospettiva, comparare vuol dire sviluppare una certa attenzione e sensibilità alla porosità tra diversi fenomeni religiosi e culturali, ai fenomeni globali, alla relazione/incontro/scontro verso l’alterità, e alla fenomenologia del corpo e delle emozioni umane. Ad esempio, come sostenuto da Egil Asprem, ci sono varie strade per effettuare una comparazione: l’analogia (dove fenomeni diversi condividono simili forme) e l’omologia (dove i fenomeni condividono una comune genealogia). Diversa è la strada dell’antropologia contemporanea, che offre nuove strade per la comparazione basate sul corpo e sulle emozioni. Infine, l’assenza di un unico termine di paragone, di una ipotesi forte che guidi il nostro comparare, lascia spazio alle voci altre, ai protagonisti delle nostre ricerche: permette di far emergere meglio le prospettive “emiche”.

La ricerca di eventuali universali, rigorosamente al plurale, non è abbandonata, ma moltiplicata nelle sue varie forme. Per evitare le deficienze prima identificate del “vecchio comparativismo”, dobbiamo studiare l’universale non come un insieme di idee fisse o di archetipi, ma come un tentativo sempre imperfetto, che assume diverse forme in diversi contesti. Studiare le tematiche legate all’universalità vuol dire anche studiare come ci si immagina l’altro e di conseguenza come si esclude l’altro: “inclusivismo ed esclusivismo”, “universalismo e razzismo” sono due facce della stessa medaglia. Per allargare questo orizzonte dobbiamo prendere in considerazione più dimensioni possibili, quali la cultura, la religione, l’etnia, il genere, l’orientamento sessuale, etc. 

Tra le tematiche che abbiamo sviluppato e vorremmo continuare a promuovere, vi sono lo studio del misticismo, dell’esoterismo, della spiritualità e della religione popolare in quanto categorie sfuggenti, che, come dice Michel De Certeau, spaventano ancora l’epistemologia delle scienze sociali contemporanee.  Comparare vuol dire anche esplorare i confini identitari e religiosi: la relazione con l’Altro. Infatti, ogni forma religiosa si deve confrontare con l’alterità, tematizzando il confine tra “noi” e “loro” Come è percepito l’Altro? Chi è l’infedele? Come si muovono queste frontiere in base al contesto politico e sociale? Inoltre, siamo interessati ad esplorare i confini porosi tra scienza e religione, tra credenze e non-credenze. Da un punto di vista metodologico, miriamo a promuovere una storia antropologica e allo stesso tempo una socio-antropologia con una forte enfasi storica, con l’intenzione di evitare sia il presentismo socio-antropologico, che una storia focalizzata solo su idee e istituzioni, ignorando la materialità, le emozioni, la vita quotidiana.

Nella prima conferenza organizzata in collaborazione con Mark Sedgwick (Università di Aarhus) nel 2017, abbiamo analizzato le influenze globali sul sufismo contemporaneo, in particolare riguardo la cosiddetta spiritualità New Age, la relazione tra Islam politico e gli interessi nazionali e l’incontro del sufismo con nuove forme culturali quali il rap. A partire da questa conferenza è nato il libro Global Sufism.

Nella conferenza Common and Comparative Esotericisms: Western, Islamic, and Jewish del 2018, il lavoro di comparazione ha analizzato le influenze reciproche tra diversi fenomeni religiosi, a volte frutto di uno scambio concreto, a volte invece frutto di un’immaginazione dell’altro. Nel libro Esoteric Transfers and Constructions che ha seguito la conferenza, abbiamo ad esempio mostrato come la poesia ebraica yemenita sia stata influenzata dal sufismo e la magia cristiana da quella ebraica. Diverso ancora il capitolo dedicato all’occultista Aleister Crowley (1875-1945) che ha studiato, immaginato e inventato un altro Islam. 

Completamente diverso è stato l’approccio comparativo adottato durante la conferenza Embodying Scientific Medicine and Religious Healing, organizzata con Andrea De Antoni (Università di Kyoto). In questo caso, il metro di paragone non sono le idee religiose o le pratiche, ma il corpo e le emozioni. Comparare in questo caso vuol dire focalizzarsi su come il corpo vive determinate esperienze in diversi contesti religiosi. Inoltre, questa conferenza ci ha permesso di mostrare la porosità tra religioso e secolare, studiando le pratiche di possessione ed esorcismo in continuità con le pratiche biomediche, al servizio del benessere fisico e mentale. 

Ancora diverso l’approccio utilizzato nella conferenza Contesting in the Name of Religion in Secularised Societies: Between Doctrine and Militancy, organizzata in collaborazione con Claude Proeschel (EPHE-CNRS) e David Koussens (Università di Sherbrooke). In questo caso il termine di comparazione tra le varie religioni è stato lo strumento politico e in particolare l’obiezione di coscienza. Da questa conferenza è nato il libro Religion, Law and the Politics of Ethical Diversity.

La conferenza dedicata al complottismo, pensata in collaborazione con Marco Pasi (Università di Amsterdam) ed Egil Asprem (Università di Stoccolma), ha combinato diversi approcci comparativi. Innanzitutto, dal punto di vista storico, alcuni autori hanno mostrato la presenza di teorie del complotto nel contesto dell’Impero Romano, mettendo in discussione un diffuso stereotipo che immagina il complottismo come un fenomeno squisitamente moderno. Altri hanno evidenziato il diffondersi e il mutarsi delle teorie del complotto, come nel caso dei “Protocolli dei Savi di Sion” che nel contesto giapponese si modifica a tal punto da trasformare gli ebrei non più in presunti carnefici, ma in possibili eroi. Altri hanno cercato degli elementi psicologici ricorrenti in diverse teorie del complotto. Altri ancora hanno sottolineato la continuità tra complottismo e scienze umane e sociali. Da questa conferenza è nato il libro Religious Dimensions of Conspiracy Theories Comparing and Connecting Old and New Trends.

Questo approccio multipolare alla comparazione è stato possibile solo grazie ad un genuino orientamento interdisciplinare. Agli eventi di questo Centro hanno partecipato storici, sociologi, antropologi, psicologi, letterati, giuristi e linguisti. Seguendo questa prospettiva, comparare significa anche creare nuovi ponti tra discipline, nella speranza di guardare con lenti diverse la complessità che ci si presenta.

La comparazione può portarci anche oltre i confini della ricerca scientifica intesa nella ristretta concezione popperiana come delimitata dai principi di falsificazione e verificabilità. Infatti, le emozioni, le percezioni, le esperienze corporee ed estetiche possono avere una valenza conoscitiva, anche se difficilmente riconducibili alla coerenza razionale. In particolare, mi riferisco all’arte in quanto esperienza estetica che consente di esperire una “verità sensoriale” che non si impone attraverso la forza dell’argomentazione, ma permette di “trasformare il sensibile, la realtà della vista, del gusto, del tatto e dell’olfatto, che inevitabilmente implica un cambiamento di idee, comprensione e visione”. L’arte che si esplicita nelle parole o nel silenzio, rimane una forma di coscienza fisica, sensuale, “corporea”. Pensatori come Hans Georg Gadamer (1900-2002), al contrario, non si interessano alle dimensioni corporee ed emotive, ma hanno concettualizzato l’esperienza artistica come una forma di aumento ontologico dell’essere.

“Nella misura in cui incontriamo nel mondo l’opera d’arte e nell’opera un mondo, essa non resta per noi un universo, estraneo, entro il quale siamo attirati magicamente e per istanti. Invece, in essa impariamo a comprendere noi stessi, il che significa che superiamo la discontinuità e puntualità dell’Erlebnis nella continuità della nostra esistenza.”

Indipendentemente dalle diverse concettualizzazioni dell’arte, possiamo sostenere che l’esperienza artistica sia senza dubbio un prezioso strumento per la ricerca scientifica, che ci consente di aumentare la nostra “immaginazione morale”, come afferma Carlo Ginzburg, permettendoci di immedesimarci nei panni di persone distanti nello spazio, nel tempo e nelle abitudini. L’arte non solo allarga i nostri orizzonti, ma riesce a mettere in discussione le nostre credenze e stereotipi, creando nuovi spazi. 

“Nella lettura di libri di finzione, ci possiamo ritrovare nei panni di un assassino, di un burattino, di un insetto. Delitto e castigo di Dostoevskij, Pinocchio di Collodi, La metamorfosi di Kafka: dimensioni lontanissime da noi; però questi scritti ci permettono di entrare in un mondo che non è il nostro e questo è, mi pare, qualcosa che ci nutre profondamente.”

Anche se il linguaggio dell’arte non è universale, in quanto anche le sensibilità estetiche sono costruite socialmente, possiamo dire che è senza dubbio trans-culturale e tran-storico. Infine, l’arte ci permette di rendere visibile l’invisibile, dando forma alla dimensione trascendente.

Per queste ragioni, il Centro ha promosso eventi ibridi nei quali artisti e ricercatori si sono confrontati apertamente. Ad esempio, nei seminari dedicati alla calligrafia araba e giapponese, oramai appuntamento fisso ogni anno dal 2018, dove studenti di lingue orientali e non, hanno potuto sia approfondire le proprie competenze linguistiche e calligrafiche, che “sporcarsi le mani”, comprendendo che la calligrafia può diventare rito ed esperienza spirituale.

Nel 2019, con la collaborazione dell’agenzia fotografica Magnum Photos, il Centro ha organizzato un workshop e una lezione magistrale dove si è affrontata la questione di “come si fotografa il sacro”. Jonas Bendiksen ha presentato il suo libro fotografico the Last Testament, dedicato a sette uomini che si propongono come le reincarnazioni di Gesù Cristo, mentre l’antropologo Manoël Pénicaud (CNRS) ha descritto il ruolo della fotografia nell’antropologia religiosa, in particolar modo nei pellegrinaggi. Il dialogo tra fotografia e ricerca continuerà nei prossimi anni con nuovi eventi co-organizzati con la Magnum.

Grazie al progetto Invisible Lines co-finanziato dal programma europeo Europa Creativa, abbiamo potuto esplorare il linguaggio artistico del fumetto e dell’illustrazione, permettendoci di comunicare con nuovi pubblici. Il progetto, iniziato nel 2020 e della durata di due anni, consiste in un training itinerante per giovani artisti che sono chiamati a disegnare l’invisibile, inteso in chiave spirituale emetafisico, sociale e geografico. Assieme ai partner di questo progetto (l’Associazione culturale Hamelin, Central à Vapeur e Baobab Books) produrremo quattro libri che raccolgono le opere dei giovani artisti e organizzeremo mostre a Bologna, Strasburgo e Tabor.

La libertà di spaziare tra discipline diverse, creando degli eventi ibridi, che sfidano le frontiere del sapere, è stata possibile grazie alla spinta utopica della Fondazione. Infine, consideriamo di fondamentale importanza l’accessibilità e la sostenibilità dei prodotti della ricerca: a questo scopo nel 2020 abbiamo fondato la rivista scientifica Religiographies, che sarà online e ad accesso libero e gratuito. 

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